Testo Critico

Di fronte a voi giace un letto fuori dai cardini, un letto che ha assunto la verticalità - invertendo l’asse che lo consegnava a muto ricetto dei corpi - e si è fatto soglia, ultimo avamposto prima di cedere al rituale e fisiologico abbandono del sonno. Questo letto si rende indisponibile ai corpi; segnala un cambiamento nella sua funzione: da supporto irrilevante di figure abbandonate a sito di un’esposizione. Il valore documentale di un simile mutamento s’impone; a esso spetta il compito di rilevare i resti della notte ed esporli allo sguardo. Così, ciò che avanza della silenziosa scomparsa di una coscienza, attraverso la frattura aperta dal sonno nel territorio della veglia, non è più occultato dalla pratica domestica del “rifare” il letto; questo residuo di un altrove notturno diviene invece rilevo estetico, increspatura, piega sottile d’invisibili profondità. Ciò che resta si segnala come l’effetto superficiale di un movimento corporeo, come l’istantanea di un evento metamorfico. Un lenzuolo, un oggetto che ha perso - nella nuova ostensione - i suoi connotati e il senso domestico del proprio nome, si mostra come lo spazio ripiegato attorno a un corpo, come la traccia di una corsa infranta lungo i margini di un contatto. Ciò che lo sguardo di solito non rileva, quale negativo che permette lo stagliarsi dei volumi confinanti, compare ora come forma autonoma, anche se imprecisa, indicativa; come se in essa ci fosse ancora un residuo di allusività. Essa richiama, misteriosamente, una doppia assenza: quella del corpo, risollevatosi dopo il riposo, e quella dell’io, sprofondato nelle pieghe del sonno. E il sonno, monitorato da un encefalogramma, ha nel ritmo e nella misura di queste pieghe un suo correlato materico; è un’attività cerebrale, oltre che corporea, quella che viene registrata dal continuo ripiegarsi su se stesso di un tessuto. Tuttavia questo affollarsi di segni, tracce e grafie non ci restituisce nessuna immagine di quella fase del sonno detta a onde lente - non luogo di profonda rigenerazione organica del corpo e delle sue complesse funzioni metaboliche -. Non c’è strumento che renda visibile il suo tempo aniconico, non sublimato da simboli, né conteso dal linguaggio - nemmeno da quelli psicanalitici -. C’è solo questo letto - fattosi porta - a supportare il nostro bisogno figurativo, e l’oggetto fissato sulla sua superficie. Il calco di una sismografia della coscienza è espresso dalle possibilità di ripiegamento di un tessuto. Attorno a delle transitorie suture si determina una nuova tessitura, fatta di fitte plissettature concentriche, eccentriche. Avviene così una metamorfosi: il morbido, frusciante tessuto si consolida attorno a delle sottili punte di spillo. Punti nodali affondano sotto la superficie, su un invisibile sito di ancoraggio. Non sono tali punti, però, a dare forma alle pieghe che vediamo, a permettere la metamorfosi di una materia: essi sono solo l’occasione affinché tra le fibre del tessuto si stabiliscano delle tensioni. Gli spilli suscitano una reazione su un corpo apparentemente inerte, delle tensioni che una volta rotte producono dei ripiegamenti, delle frammentazioni dell’unità, dei finti tagli che danno l’illusione di una profondità. Infine, dalla metamorfosi di una forma e di una materia (la morbidezza cangiante di un tessuto che si solidifica in creste quasi rocciose), si passa all’anamorfosi di una prospettiva, quella che esige un ripiegamento per essere inquadrata, compresa. Lo sguardo indugia sulla superficie di una figura inedita, avventurandosi fra forme curve che non conducono a nessuna immagine nota. Esplora le sue pieghe alla ricerca, se non di un senso, di una prospettiva per comprenderne la figura. Una prospettiva che, però, non può essere indicata, detta; in essa si può solo essere inclusi, a patto di ripiegarsi, di lasciar cadere qualcosa, di arrestare il pensiero - inteso come facoltà dispiegante del mondo (quell’io sono che nomina le cose e il loro spazio) -. Qui, propriamente, non c’è nulla da spiegare. Qui ci si ferma. Sulla soglia di un letto posto in piedi deponiamo la nostra coscienza. Cominciamo a ricapitolare pensieri di varia natura, gravitanti attorno alle ore appena trascorse, ce ne spogliamo come chi sta per andare a letto, praticando il rito del distanziamento dalle cose. Sentiamo venir meno tutto il resto che siamo, con un lieve attrito, un fruscio che spiega l’assenza come il ritorno di un altrove presente, un punto di vista silente che muta le parole in bilanciamenti organici, in ristrutturazioni molecolari, cellulari, e trasforma il noto in sconosciuto, finalmente.
Marco Pascarelli