«È privilegio e opera dell’apprendista della creazione pervenire con l’immaginazione all’inimmaginabile e con la parola all’ineffabile». Tutti noi, in ogni nostra opera, partecipiamo alla creazione (e in questo risiede evidentemente la costante responsabilità della condizione umana), ma la considerazione appena ripresa da La risurrezione della rosa, una raccolta di mirabili scritti di Wendell Berry, richiama in maniera opportuna come, nell’impiego dei mezzi che nel tempo presente sono ritenuti più propri delle arti, l’uomo disponga di un privilegio particolare, risalendo canali attraverso i quali può giungere a realizzazioni che attingono a dimensioni solitamente trascurate o addirittura inconosciute dai più. Poi, come a rimettere in questione proprio le determinazioni e attese correnti rispetto alle arti, gli artisti contemporanei più devoti nel loro apprendistato della creazione paiono essere quelli che rigettano le distinzioni predominanti tra modalità di ricerca della conoscenza, muovendosi in un continuo di sensibilità lungo il quale gli stimoli alla propria immaginazione, le aperture sull’ineffabile, vengono trovate anche soffermandosi su esperimenti antichi, guardando oltre il corso principale di ciò che viene denominato cultura. Il caso di Valerio Giacone, e segnatamente l’albero della vita alla base del suo Corpus Hominis, sono esemplari di quanto qui avvicinato, nel tema prescelto così come nelle sue ispirazioni. La fascinazione di Valerio per gli alberi era evidente in maniera drammatica nella sua pittura, più di recente si è sviluppata nei sottili equilibri di composizioni realizzati con vecchi libri ed elementi naturali (cera, rami), nella presente occasione perviene a una combinazione ambiziosa e al contempo ponderata di fattori sia materiali che spirituali. Quanto alle ispirazioni, vale segnalare al lettore come il richiamo alla mistica ebraica, e in particolare alle sue proiezioni dell’Infinito lungo il diagramma simbolico dell’albero sefirotico, sia il primo e più dichiarato dei principi che reggono l’opera in discorso. Si tratta di un richiamo rilevante per le profondità di conoscenze che attiva: esso, inoltre, significativamente accomuna Giacone a uno dei suoi principali riferimenti artistici, Anselm Kiefer, il quale, richiesto in una recente intervista di esplicitare i rimandi alle sephirot presenti in una torre dei suoi celebrati Sette palazzi celesti, ha rilasciato una considerazione che ci s’immagina Valerio possa sottoscrivere appieno: «io credo che nei materiali, nella materia ci sia nascosto lo spirito, e l’artista, cioè ogni essere umano, ma l’artista in modo particolare, ha la capacità di evocare questo spirito, questo spirito racchiuso nella materia». Al fondo di un’opera-azione come quella del Corpus Hominis, in effetti, si rinviene l’approvazione convinta di un’unità tra anima e corpo tale da determinare un’armonia vivente, un «corpo animato» di cui, nel gioco meraviglioso della creazione e lungo la perenne tensione tra macro- e microcosmo che ne regge le singole manifestazioni, l’uomo è naturale componente. La circostanza che un simile strumento artistico trovi la propria collocazione nel corpo di una vecchia chiesa, infine, pare l’opportuno coronamento della devozione mostrata dal suo artefice, così riconnettendosi a quell’accumulo di spirito, proprio dei luoghi di culto, che continua a caratterizzare questi anche dopo il loro abbandono materiale. Nelle emanazioni che saranno così attivate, lungo le rivelazioni e i conseguenti compimenti di chi a questa manifestazione si sarà avvicinato, proseguirà, dunque, il gioco meraviglioso di cui si è detto, dove ogni ente è insieme risultante e parte attiva.
Luca Arnaudo

La Chiesa di Santa Croce sarà il Corpus Hominis che il visitatore avrà la possibilità di abitare, fino a toccarne, annusarne, percepirne l'anima. Dieci punti disegnano la struttura di un percorso geometrico che si snoda dal basso verso l'alto, dall'entrata a salire fino all'affresco della croce posizionato in fondo alla chiesa. La struttura di questo labirinto anatomico sarà costruita utilizzando libri, cera d'api, canapa, terra, elementi della natura.

ALBERI
L'albero è archetipo dell'Uomo. La figura del Corpus Hominis deve essere letta come riflesso terrestre di quell'"albero di vita" di cui parla la tradizione della Qabbalah. Decifrare quest'albero significa saper leggere il "libro di carne" che il nostro corpo è.

Il processo di umanizzazione del corpo è forse la pratica più intensa e violenta a cui la creatura si è sottoposta per ricavare la sua specificità. Il supporto mutande, appartenute a suore di clausura della prima metà del secolo scorso, circoscrive il tema sempre attuale di una relazione incoercibile tra l'investimento dei segni culturali sulla materia vivente per piegarla ad un modello ideale e la persistenza dell'incidenza corporale, solitamente oscurata, e che qui riluce attraverso la signatura di un ricamo sanguigno. Mestrui, flussi, plasmi, linfe affiorano e rivelano i corpi nella loro micidiale giuntura allo spirito e si imprimono sulla tela dell'indumento con la forza di un reclamo affermandone la vitalità intrinseca contro ogni codice e ogni disciplina.
Michela Rosetti

ALBERI
Installazione di 16 mutande su supporti sintetizzanti la figura umana realizzati con rami d'albero in parte scortecciati con tagli secchi e imprecisi ad indicare lo slancio trascendentale che anima i corpi. A terra la parte grossa delle gambe, impiantate sull'argilla sterco, descrivono la dimensione esistenziale di matrice terrestre, ben radicata al suolo, che tenta di elevarsi, farsi essenza, non arrivando mai davvero a trasfigurarsi, ad elevarsi.

Il video Il Cedro dei Cieli nasce all'interno di un progetto intitolato Tutto ciò che so esposto e creato in collaborazione con la Galleria Passaggi ed incentrato sull'Orto Botanico di Pisa. Il Cedro dei Cieli è una delle tante storie che, tra Botanica, Storia, Scienze e Geografia si sono intrecciate in questo luogo: si ispira ad un evento vero, accaduto nel 1935, quando un albero secolare, piantato nel 1787, un cedro del Libano per l'appunto, viene abbattuto da una tempesta. Mariagrazia Pontorno da sempre nelle sue opere riflette sulle radici come un valore, un bagaglio che ognuno di noi si porta nella vita, senza che ciò gli impedisca di muoversi. E anche in questa storia l'artista non vede lo sradicamento come un fatto tragico, ma inizia a fantasticare su ciò che avviene dopo. L'albero se ne va in cielo, sì, ma vola con estrema ironia, come se l'abbattimento lo avesse infine liberato e reso padrone della sua vita. Diventa un palloncino sfuggito dalla mano di un bambino, una mongolfiera carica di aspettative di girare il mondo. La leggerezza con cui la massa enorme dell'albero si invola crea un'ambiguità nella visione: c'è una discrepanza tra realtà e senso, tra possibile e immaginario. E infatti solo ora ci accorgiamo che l'albero non è vero: il suo volo è reso possibile dalla tecnica scelta per rappresentarlo. Mariagrazia Pontorno ricrea infatti la realtà attraverso la tecnica di disegno computerizzato in 3D, un linguaggio contemporaneo, in cui l'arte e l'espressione umana sono un tutt'uno con la ricerca tecnologica e scientifica, senza che mai questa scada nell'effetto, nella meraviglia. Questo linguaggio sperimentale, anzi, ha il valore di riassumere in sé tutte le tecniche tradizionali: scultura, pittura, sapienza artigianale, fotografia, tutte elaborate attraverso un computer. Si tratta di una lingua nuova, che però, come il tema tanto caro all'artista, ha le sue radici. Un linguaggio nuovo e necessario per parlare dei temi di questa generazione: flussi di persone in tutto il mondo migrano; di queste un movimento più piccolo ma comunque significativo è quello dei giovani che cambiano luogo per lavorare, anche nel nostro Paese. Mariagrazia Pontorno ci invita a sentirla come una speranza. Il mettere radici in più luoghi vuol dire estendere le proprie radici, allargare le nostre origini ed avere così anche una chioma più larga. Si dice che gli alberi si sviluppino sotto la terra tanto quanto nell'aria: è così che l'artista vede il suo cedro: possente e folto anche nel fusto e nell'ombrello, un riparo per altri, un'ombra riposante, un mezzo con cui volare; una metafora di esplorazione e di nuova conoscenza che si confonde con la poetica fantasia delle nuvole.

Annalisa Filonzi

Nelle sue opere Beatrice Pucci visualizza l’angoscia delle piccole crudeltà quotidiane. La paura di entrare dentro una stanza al buio; il sentirsi piccoli di fronte a qualcosa che ci sormonta; lo spavento per la sensazione di diventare grandi; l’orrore dentro l’ultimo spasmo del cibo che mangiamo; il prurito che fa ribollire la pelle alla vista di un insetto; lo strazio inconsolabile nel pianto di un neonato; la fragilità disumana del battito d’ala di una farfalla. Sono lievi movimenti verso la morte, avvicinamenti che aleggiano perfino sulla poesia della nascita. Solo la felicità di chi è nato a nervi scoperti ne può essere intaccata, è l'apostrofo sopra l’ultima lettera della parola “sensibilità”. Crudeli sono anche le fiabe: di notte popolano i sogni dei bambini con i loro mostri, ma negli adulti resta attaccato ai loro vestiti l’arcano delle paure; il lieto fine smentito dalle esperienze, ne rimane il senso profondo di discesa irrevocabile nel buio.

Soil is alive è una favola moderna, una favola ecologica. Protagonista dell’animazione è la terra, quello strato fertile di quei pochi centimetri di suolo che ci donano la vita. Una risorsa limitata, minacciata dal ritmo incontrollato delle aree edificabili che sta divorando porzioni di terra fertile, e dall’agricoltura intensiva che sta consumando i nostri terreni. Il tema della morte qui si universalizza e dalla sfera esistenziale si allarga alla politica globale di gestione delle risorse. Dal suolo nasce e ritorna tutto ciò che è vita: è l’anello fondante del ciclo vitale. Nella narrazione del video, divisa in capitoli, il bosco, nutrimento e prodotto della terra, respiro e rifugio per tutte le altre specie animali, ormai secco e spoglio, viene tagliato; la terra raccolta e rinchiusa in sacchi con lentezza e fatica viene portata al cospetto di tre donne che se ne nutrono: le tre Parche, dispensatrici di vita, di destini e di morte, inesorabili tessono la loro tela; dal taglio netto della vita di una creatura nasce la ricompensa e l’accresciuto potere per un’altra. Gli uomini - qui rappresentati da sibilline figure femminili, nell’ambivalenza del ruolo di madri e streghe - decidono con lucida irrazionalità il loro macabro e ambizioso dominio. Ma la speranza ha il sopravvento: un piccolo seme sfuggito dal sacco genera il germoglio di una nuova vita.

Ognuno dei sei capitoli del video è associato ad una specie spontanea del prato. Si ripete il rapporto ambivalente tra cura e morte insito nella figura femminile: le proprietà curative delle specie scelte si fanno sempre più pericolose fino al potere allucinogeno e narcotico dell’erba del diavolo o erba delle streghe (datura stramonium) usata come vero e proprio veleno; e alla stachys palustre, detta stregona palustre, regolatrice delle funzioni dell’utero e quindi capace di ristabilire il ciclo della vita. Il messaggio ecologico di tutela del suolo passa attraverso le inquietudini del prato, suggestionanti spostamenti della superficie per dire che la vita è declinata nella morte.

Annalisa Filonzi

Un’intera strada avvolta dalla carta, un bosco magico che nasce nella notte per far immergere i passanti nelle atmosfere di una Nottenera dedicata al tema degli alberi. Matteo Ufocinque Capobianco ritorna a Serra de’ Conti con le sue installazioni, un’opera prodotta durante una residenza nel mese di luglio. Nato artisticamente in strada, già nei dipinti urbani l’artista ricerca la profondità della terza dimensione e il contatto umano con le persone che abitano il luogo. Nel bosco magico l’esperienza dell’immersione - che l’anno passato faceva sprofondare nelle radici urbane delle fondamenta dei palazzi di Serra, nella Grotta 41 - è trasportata in uno spazio esterno, dove la carta mostra tutta la sua fragilità e la possibilità limitata del suo essere. Un materiale delicato solo in apparenza, che si fa tagliare, modellare, piegare, ma conserva la sua linfa vitale e una eccezionale energia di protezione. I fogli divengono foglie e si confondono nel fruscio delle fronde, perché il bosco va percorso in silenzio e ascoltato, insieme al battito dei cuori in salita, come un concerto di suoni che fanno ritrovare se stessi. E l’arte di Ufocinque è anche una pratica di ricerca dell’armonia, del punto di incontro tra uomo e natura. Un essere naturale ma condannato ad allontanarsi da essa con ogni suo gesto: sta proprio nella ripetizione di gesti artigianali, nella lentezza di una pratica che facilita il pensiero, la ricerca di ricavare un senso dall’esistenza dell’uomo in natura. Da albero a foglio e di nuovo a bosco, la dimensione bidimensionale e quella tridimensionale si confondono, in una trasfigurazione in cui anche il ciclo vitale della materia diventa una trasformazione simbolica nel mondo della fantasia: un mondo onirico, lasciato bianco perché l’immaginazione lo disegni con i suoi colori.

Annalisa Filonzi

Il caso è speculare all’accadere, una comunicazione tra cielo e terra, che anche questa volta, semplicemente, è occorsa. Tutto si può spiegare – con teorie di fisica quantistica, con l’antropologia culturale, con lo sciamanesimo – ma poi in realtà si tratta di un contatto con l’universo a cui basta dare ascolto. Ci sono disegni, in mostra, che nascono da appunti scolastici. Tante parole messe lì, una di seguito all’altra, su pagine di quaderno, forse prive di senso anche per chi le pronuncia. Sono state scritte a scuola e questa comunicazione interrotta tra docente e discente suscita angoscia, perché lessico e frase hanno da sempre strutturato la Cultura, e se il dialogo tra pensiero e parola si ferma, se i giovani non inventano più nuovi termini per nuove emozioni, e la conoscenza perde il suo senso, allora vuol dire che qualcosa di brutto sta accadendo, e noi non gli stiamo dando ascolto. Ma l’artista è lì, nascosto, ma scoperto nei nervi come nel cuore. Le parole, da muto sottofondo, tornano indietro alla loro origine dell’essere e si tramutano in segni. In tre diversi cicli di disegni Luca Lavatori si trasforma in scriba egizio, è come il primo uomo che dà forma a ciò che vuole esprimere. Ci sono gli scarabocchi che riempiono il foglio, ripetuti con ritmi ossessivi, impetuosi simboli e forme, formule geometriche e linee, per tentare di racchiudere la ragione dell’universo, ma anche per poi poterlo lasciare andare nel suo disordine. Ci sono le figure nere, ombre di uomini che si proiettano sul foglio e coprono le altre tracce, ad imporre il proprio esistere sulle linee di senso nascoste. Poi ci sono i disegni, più colorati, in cui le figure si compongono in un pensiero astratto ma più esplicito, da cui tutti possono trarre un racconto. L’artista estrapola una pagina ogni tanto, e la ingrandisce: è la sua storia, il suo dialogo col mondo. Ma di storia, di quelle misteriose, adatte ad una notte d’estate come questa, ce n’è un’altra in mostra: si legge all’incontrario, come i messaggi sibillini, ma anche questa c’entra con il caso. L’opera Il ritorno della Pizia nasce da un progetto del 2014 di Manuela De Leonardis che ha consegnato a centoventotto artisti un libro diverso per l’esposizione The great illusion presso la Gallery of Art della Temple University di Roma. Lavatori apre in sequenza le pagine del suo libro e ad occhi chiusi sceglie un vocabolo. Il disegno che copre la pagina ne è l’illustrazione. Ma solo al termine delle 132 pagine il racconto si ricompone: il caso non esiste, oppure ha una sua anima: tutte le parole, messe una dietro l’altra, parlano: i fogli resi traslucidi dall’artista hanno perso il messaggio, il romanzo non è più decodificabile, le lettere si confondono, eppure quello che resta è un’ultima pagina ricomposta tipograficamente: con l’aiuto di punteggiatura e grammatica il discorso fila e parla: un messaggio sibillino, ma che tocca il vero. Soggetto e oggetto dell’azione artistica, autore e opera, si sono intrecciati: entrambi attivi protagonisti della bellezza dell’irrazionale.

Annalisa Filonzi

Terra acqua aria fuoco sono gli elementi che compongono la vita. Una dimensione biologica e scientifica che innesca l’arte di Fatma Ibrahimi facendoci trovare nel mezzo di un vortice ai confini del tempo e dello spazio, dove gli elementi si confondono in un qui e ora che ci trascina nell’altrove. Sono grandi quadri a olio e acrilico su tela sempre in divenire: c’è sempre qualcosa che sta per accadere o si è appena concluso. Non esistono confini tra un quadro e l’altro: la dimensione della tela è solo una convenzione, che ingigantisce i rimandi tra uno spazio e l’altro. L’installazione all’interno della cripta della chiesa di Santa Croce non fa che accentuare il senso dello scambio e del sacro: il luogo diviene una sintesi e un tempio delle dimensioni aerea, terrena, acquatica e vegetale; e nello stesso momento non sono solo gli ambienti a confondersi, ma il tempo che ritorna su se stesso: l’antico spazio abbandonato, fondamenta di pietra e di preghiera, viene invaso da lingue di vegetazione pittorica, stratificazioni di senso che però non gettano sulle pietre la polvere degli anni, ma travolgono in un buco nero la linearità del tempo, riportando chi guarda ai primordi della nascita dell’universo, ma anche alla dimensione fluida di un futuro apocalittico e stellare. Guardando i quadri di Fatma si prende la macchina del tempo, ma poi ci si ritrova negli abissi ad esplorare i fondali marini; attraverso il periscopio del nostro sommergibile si raggiunge il cosmo stellato, a bordo di un’astronave che ci fa sentire archeologi del futuro. Ma l’esperienza del viaggio non è terminata: giù in picchiata attraverso le meteore e le nuvole, nel cielo di un’esplosione che è forza e fuoco della terra, ma anche big bang e inizio o fine di ogni cosa. Fatma Ibrahimi non è solo pittrice ma è anche una musicista. Sa comporre le pennellate come le note, ricreando il ritmo di una materia che ha un suono individuale, ma è capace di avvolgere chi si lascia trasportare in una sinfonia di strumenti; in cui ogni elemento è l’elemento necessario e irrinunciabile di una complessità che è l’orchestrazione della vita.
Un mondo in cui perdersi vuol dire anche ritrovarsi nei particolari; un mondo oltre la forma e oltre la presenza umana, in cui il pensiero dell’artista si raffigura, liquido, attraverso una delle tecniche più tradizionali dell’arte, la pittura.

Annalisa Filonzi

Conservare nella memoria e riportare alla mente un ricordo è un’operazione naturale quanto meccanica del nostro cervello. Ma quando un ricordo si collega ad un’azione, si innesca un cambiamento individuale e/o collettivo che lascia sempre un segno interiore e spesso tangibile.
“Ricordarmi degli alberi” è un’esortazione artistica e un richiamo all’azione per risvegliare la consapevolezza, un progetto di sensibilizzazione ambientale attraverso l’arte ideato da Giacomo Giovannetti per Nottenera festival.
L’artista, riflettendo sul bisogno impellente di cambiare il rapporto dell’uomo con l’ambiente, individua negli alberi l’elemento principale del suo processo creativo. Queste presenze arboree essenziali proteggono silenziosamente il nostro mondo e, anche se spesso non ce ne accorgiamo, sono parte integrante della nostra vita. Partendo da una maggiore attenzione percettiva, dal vissuto e dai singoli ricordi, l’artista ha invitato a sfogliare vecchi album di famiglia, scegliere una fotografia legata alla presenza di un albero e condividere il racconto di quell’istante fissato su pellicola.
Le fotografie d’archivio diventano il mezzo privilegiato dell’azione artistica che mette in atto un circolo virtuoso e vitale composto da tre momenti principali: ricordo-opera-azione.
I ricordi visivi e le loro storie vengono rielaborati dall’artista sotto forma di cartoline legate a nuovi piccoli alberi, che diventano parte integrante dell’opera e fulcro dell’interazione con il pubblico di Nottenera. L’installazione ambientale creata da Giacomo Giovannetti diventa un momento di condivisione e un ponte ideale con l’Amazzonia, passando dalla mera fruizione ad una doppia azione: ogni visitatore può ricevere in dono un albero da piantare e proteggerne altri attraverso una donazione ad Arbio, associazione che si occupa attivamente di proteggere la biodiversità della Foresta Amazzonica.
Ridare vita e contribuire a difendere la biodiversità sono due gesti che innescano nel fruitore un processo di ridefinizione del suo rapporto con la natura, una presa di posizione e un’assunzione di responsabilità nei confronti dell’ambiente.
“Ricordarmi degli alberi” di Giacomo Giovannetti, si inserisce nel contesto del progetto “Tenerezze Urbane - comunità creative”, assumendo una duplice valenza culturale e sociale. Innescando un processo di riflessione corale, l’arte diventa il mezzo privilegiato per amplificare un messaggio forte teso a proteggere storie, ecosistemi vitali e futuro, rendendoci più consapevoli dell’importanza di queste presenze silenziose e discrete: gli alberi.
Testo critico di Federica Mariani

Le fotografie d'archivio in cui sono presenti alberi, ricevute grazie ad una call specifica, diventano, in “ricordarmi degli alberi”, tele sulle quali ricreare sintesi visive e narrazioni pittoriche legate ai significativi racconti relativi agli spazi adiacenti agli alberi stessi, affinché non si dissolvano . Proteggendo gli alberi si protegge la biodiversità che li circonda, gli esseri viventi e la cultura che vive attorno ad essi, ad ogni latitudine. Per ogni albero narrato e divenuto soggetto di un'opera ne pianteremo due: uno nel nostro territorio e uno in una zona estremamente nevralgica del nostro pianeta, la regione amazzonica di Madre de Dios nella concessione Arbio Peru', come dichiarazione poetica e come impegno concreto verso una visione che rimetta al centro il rispetto per la natura e l'indissolubile unione che ci lega ad essa, oltre i confini territoriali . Ogni albero piantato avrà la sua vita ma porterà la testimonianza di questo processo e la rinnovata attenzione verso un suo simile che per troppo tempo è stato solo cornice delle nostre umane esperienze, generando connessioni e mappature di storie e natura protette a partire da quella che desidereremmo fosse l'arte.

ALBERI
Gli alberi sono spettatori silenziosi delle nostre vite, ombra e presenza mutevole ma sempre composta nei nostri ricordi. Il processo che vorremmo attivare è quello di utilizzare l'albero per mettere in luce le storie che esso stesso ha “conosciuto”nel suo intorno, gli eventi dei quali l'albero è stato testimone e, come un parente, le foto nelle quali è apparso e nelle quali è stato immortalato. Molti sono gli alberi che ci hanno fatto da cornice in momenti importanti delle nostre vite e, nel processo che vorremmo attivare, ci piacerebbe ridargli centralità creando un tributo che possa valorizzare la saggia silenziosità dell'essenza arborea come punto di partenza per una ricerca che possa rinnovarci nella sensibilità. La fotografia d'archivio diventerebbe, nel nostro processo creativo, la tela sulla quale ricreare sintesi visive e narrazioni legate ai significati racconti relativi agli spazi adiacenti all'albero affinché non si dissolvano: amori, nascite , morti, aneddoti, emozioni… vorremmo far riemergere tutto questo elogiando l'albero, che silenziosamente ha donato l'ossigeno per tutte queste avventure. L'opera d'arte, in questo, si pone come strumento amplificatore capace di creare una rottura nel ritmo di fruizione della realtà per proporci una lettura “magica”e immaginifica del paesaggio. A questa presa di coscienza vorremmo seguissero azioni consapevoli e concrete nella direzione della protezione degli alberi e per ogni albero narrato vorremmo piantarne almeno due, uno nel nostro territorio e uno in una zona estremamente nevralgica del nostro pianeta, la regione amazzonica di Madre de Dios nella concessione Arbio Peru, come dichiarazione poetica e come impegno concreto verso una visione che rimetta al centro il rispetto per la natura e l'indissolubile unione che ci lega ad essa, oltre i confini territoriali. Ogni albero piantato avrà la sua vita ma porterà la testimonianza di questo processo e la rinnovata attenzione verso un suo simile che per troppo tempo è stato solo cornice delle nostre umane esperienze, creando, a partire da questo momento, una connessione e un mappatura di storie e natura protette da quella che desidereremmo fosse l'arte.

Call
Per avviare questo processo creativo abbiamo invitato tutti coloro che volessero collaborare ad inviarci la scansione di foto legate ai propri ricordi nelle quali apparisse un albero, direttamente o indirettamente testimone di storie e racconti legati alle foto.

Nella stanza buia l'unica fonte luminosa proviene dai tre televisori: a sinistra luce bianca, a destra nera e al centro di colore variabile. La tv centrale funge da microcosmo dove pioggia, calore e luce cercano di “alimentare” la pianta intrappolata nell'artificioso contesto della televisione. La composizione musicale è in stretto legame con le 24 ore del giorno: dall'ambiente notturno caratterizzato da suoni e versi del mondo animale si arriva ai rumori e ai suoni che ricordano fabbriche e industrie. Il microcosmo rappresenta la parte armonica, quella in equilibrio mentre la presenza umana, del pubblico in questo caso, è quella potenzialmente destabilizzante e vista come un pericolo; quest’ultimo è rappresentato, a livello sonoro, sia dall'apporto di componenti inarmoniche nella composizione sia, man mano che il fruitore si avvicina al microcosmo, da vari rumori di onde elettromagnetiche del televisore. Il binomio uomo/natura, il ciclo e la ripetizione sono il fulcro centrale dell’opera; la “naturale” routine dell'armonia umana (inarmonica e non equilibrata) viene contrapposta al ciclo della natura che è sì instabile e dinamico ma che ritrova sempre un suo equilibrio.

ALBERI
I piccoli alberi presenti ognuno dentro ad uno dei tre televisori rappresentano per antonomasia la natura. Nelle tv illuminate da luce bianca e da luce nera, le piante sono spoglie delle proprie foglie mentre nella tv dove la luce è variabile (ciclica alba/ giorno/ tramonto/ notte), la pioggia e il calore cercano di “alimentare” l'albero creando una sorta di microcosmo.

L’installazione ‘Ri-tratti sonori’ nasce dalla volontà di raccontare, valorizzare e riscoprire il territorio e le persone che lo abitano, dando risalto a storie quotidiane apparentemente marginali. Il laboratorio, svolto nei mesi scorsi, ha indagato il processo di realizzazione di videoritratti emozionali grazie alla guida di Alessio Ballerini che ha fornito ai partecipanti del workshop conoscenze e strumenti per padroneggiare tecniche audio/video. Trattandosi di Sounds portraits però il suono nei video realizzati, non è elemento accessorio, ma vero e proprio protagonista.
Muovendo da questo codice particolare i ragazzi hanno individuato 5 protagonisti, 5 abitanti del territorio di Serra de’Conti e Barbara che con i loro racconti fanno rivivere il tessuto sociale e le sue tradizioni. I 5 protagonisti sono: Rino e Angela Capotondi, Viviana, Sara Quagliani, Lorenzo Arcangeli, Manuel Marocchi. Tradizione e contemporaneità si cercano e si incontrano!

ALBERI
“C'è sempre musica tra gli alberi del giardino, ma i nostri cuori devono essere molto sereni per sentirla”. Minnie Aumonier, cit. in ICD, Scientific & Educational Journal, 1975

Personale, tra gli alberi, di Gio Evan.
Le poesie più piccole del mondo sono minuscole opere incollate o incastrate in tutti i paesi visitati dall'artista. Piccole poesie posizionate strategicamente per esser vedute esclusivamente da occhi vispi o da fortunate sincronie. L'opera è un invito all'amore per il dettaglio, alla cura del piccolo e a preservare l'intuito. Per la prima volta l'autore espone dieci delle sue poesie più piccole in una personale a cielo aperto e a buio imperante! Dislocate lungo un percorso che dal centro storico di Serra de’ Conti conduce verso la collina dove sarà possibile vedere l’alba per chi resterà fino alla fine. Buona ricerca!

Da circa due anni Le Vanvere portano avanti il progetto 4x4, una serie di 4 immagini, ognuna realizzata dalle quattro componenti del collettivo, dedicate a un tema unico. In occasione di Nottenera, le Vanvere realizzeranno un 4x4 ad-hoc per il festival e i suoi dieci anni di vita. Quattro stili diversi per affrontare le numerose sfaccettature del concept "Alberi", tema di questa edizione: dalla mitologia alla filosofia, dalla tradizione alla cultura pop, attraverso vettori, china e matite. Le immagini diventeranno cartoline e saranno in vendita durante Nottenera e in tutti gli eventi precedenti e successivi dedicati al festival.

ALBERI
ALBERO è l’esplosione lentissima di un seme. (Bruno Munari)
Da quando abbiamo iniziato il nostro lavoro insieme, ci siamo confrontate su molti argomenti e abbiamo disegnato sui temi più disparati, gettando le basi per un percorso condiviso ancora in divenire. Disegnare di alberi è per noi un grande onore, nonché spunto di riflessione per arricchire la nostra ricerca e coltivare ciò che abbiamo seminato negli ultimi due anni. Consapevoli del fatto che il nostro punto di forza è la diversità di stili e di approccio all’illustrazione, ogni tema da affrontare attraverso i progetti 4x4 diventa strumento di confronto e di crescita, sia individuale che di gruppo.