Un grande dipinto accoglie il visitatore che entra nell’antica Chiesa di Santa Croce: Non mi va di cucinare. Un titolo che non lascia spazio a interpretazioni. Un rifiuto netto, urlato attraverso una pittura espressiva e vibrante che diventa subito una dichiarazione di intenti. Un manifesto poetico, una fuga dalle necessità, dagli impegni quotidiani, dalle agende colme di appuntamenti e dai doveri sui calendari cerchiati con la penna rossa.
È il diritto alla pigrizia, all’ozio creativo, al tempo sospeso e dilatato dell’osservazione. Quel tempo in cui si coltivano pensieri, si nutre lo sguardo e si cresce interiormente. È in quel momento di pausa che si rivela la bellezza: nelle cose minime, nei dettagli nascosti, nei frammenti che compongono il puzzle delle nostre vite.
A questo tempo riconquistato rende omaggio Non mi va di cucinare, la mostra che Martina Vanda presenta per Nottenera. Un viaggio domestico e visionario, che parte dalla cucina: spazio quotidiano per eccellenza, focolare e cuore delle relazioni familiari. Ma la cucina che qui si racconta non è più solo il luogo da sempre associato alla donna, ai doveri, alla fatica, al confino sociale. Nella visione di Vanda, la cucina non ha nulla della prigione ma è un laboratorio alchemico, uno spazio di trasformazione dove gli elementi si mescolano, reagiscono, esplodono in nuove combinazioni. Dove il fuoco non consuma ma crea.
Su tele e ceramiche l’artista miscela colori, gesti, materiali come fossero ingredienti di una ricetta segreta. La pittura si fa materia viva, densa, e racconta – con sincerità e ironia– la propria intimità. La stessa intenzione trova eco nella ceramica, materia alchemica e trasformativa per eccellenza, nata dall’incontro dei quattro elementi.
Come un focolare acceso nel cuore della chiesa, prende forma una nutrita raccolta di piatti, vasi, stoviglie: oggetti forgiati e dipinti, abitati da frasi, immagini, figurazioni che sembrano rivelazioni improvvise emerse dalla vita quotidiana. È un piccolo santuario della casa in cui l’ordinario si riveste di qualcosa di sacro. Anche l’oggetto più dimesso – una pentola, un coperchio, una caffettiera – si carica di senso, diventa portatore di memoria e possibilità. Tra i dipinti e le ceramiche, scorrono corpi femminili in movimento, ragazze che fanno capriole, figure indolenti che perdono tempo, ragazzine impertinenti in cerca di risposte profonde (Le Grand Bo, Cold water). Nelle opere di Martina Vanda tutto è vivo: i fornelli scoppiettano, le caffettiere fremono, il colore trabocca come un sugo in ebollizione. C’è ironia e dolcezza, c’è Alice nel Paese delle Meraviglie (Sono sempre le sei, Breakfast) e c’è il tè del pomeriggio, servito da lepri frenetiche sotto orologi rotti, simboli di un tempo che impazzisce e della pausa dopo tanto – rimandato – lavoro.
Tra le ceramiche emergono quattro candelabri, elementi simbolici e luminosi, che trovano risonanza nel dipinto esposto nella cripta (I told you from the starS just how it would be end): un cielo stellato ispirato alla volta affrescata di una vecchia chiesa. Qui la volta celeste non ha più nulla di irraggiungibile, le stelle si addomesticano e il destino si compie, è un cielo amico, foriero di possibilità e nuovi sguardi sulla realtà.
A chiudere il percorso, cinque dipinti esposti nel Giardino della Famiglia Maiolatesi (Spark, Capriola, Wild pot, Coffee pot, Try to set the night on fire). Qui, il mondo figurativo di Martina Vanda si espande, prende respiro e si apre alla luce del giorno. Una ragazza accende i fornelli, le pentole vanno sul fuoco, una caffettiera sta fischiando, il bianco e nero si arricchisce di colore, il gesto ponderato lascia spazio all’espressione. La mostra si chiude così: un momento prima che queste azioni trovino compimento. Non vi è alcuna risposta, niente di concluso. C’è un equilibrio tra fuoco e quiete, tra noia e consapevolezza. Un minuto di distrazione prima di chiedersi allarmati: avrò chiuso il gas?